sabato 24 luglio 2010

Gingko contra Alceverde

Il Cittadino

Nel "Contratto Sociale", Rousseau aveva tenuto ben distinto il bourgeois dal citoyen. Il soprannome che è stato attribuito ad Alceverde, il Cittadino, segnala una sostanziale sovrapposizione dei due concetti nella loro trasmissione, in particolare l'identificazione del secondo con il primo. Quando si parla di Alceverde si parla del profilo del borghese attuale. Rispondere alla domanda su chi sia Alceverde, significa inevitabilmente fornire una delle risposte possibili alla domanda su come la borghesia sopravvive ancor oggi. Borghese è oggi semplicemente la postura comoda in mezzo all'esistente, e la conseguente ideologia che rende attraente questa postura. Ci sono molte declinazioni di questo star comodi in mezzo all'attuale. Alceverde ne rappresenta una.


Il linguaggio idolatrico

La totalità concettuale tessuta finemente su quella materiale, si esprime nel linguaggio con una purezza cristallina. Il linguaggio di Alceverde, quello parlato, che proviene immediatamente dal suo corpo, e non quello scritto, che egli riesce pur sempre a mediare con una buona dose di riflessione, è quello dell'attuale sistema educativo, dell'intelighenzia dalla televisione in giù, delle pubblicazioni culturali piccolo borghesi, del culturalame libresco e filmico dell'industria dei giocattoli per colti- e non da ultimo, del linguaggio dell'informazione, sintesi magistrale di tutte queste tendenze. Alceverde utilizza, non appena può, acronimi, sigle, nuovi conii. Volentieri cita, sotto una fragilissima patina di ironia, un lessico farcito di importazioni esterofile, perlopiù destinate a breve vita. In particolare, nessuno contraddice più di lui al comandamento: "non ti farai immagine alcuna". Egli assapora infatti con voluttà, nomi come se fossero articoli di massa e di consumo, ciascuno con il suo sapore estetizzante, di un'arte da impiegato d'ufficio, nomi che che appartengono ad un linguaggio tecnico, il cui referente può esser noto solamente a chi è immerso nell'attualità. E' il gergo delle prime pagine delle testate giornalistiche e, suo malgrado, non solo, considerato che appartiene in forma appena più inelegante anche a riviste scandalistiche, pubblicità, e spettacoli comici. In questo linguaggio la riflessione è tagliata fuori, i concetti utilizzati nella loro durezza di cose, mediante l'omissione ed il taglio dell'articolazione logica che solo renderebbe un linguaggio tale. Espressioni come "legge-bavaglio" sono il lutto del linguaggio. Esse presuppongono con arroganza che il referente sia noto al destinatario in quanto appartenente alla triste comunità dell'informazione. E' innegabile che queste espressioni luccichino; sono immagini, idoli, feticci forgiati nella rapidità e nella scaltrezza piuttosto che nell'oro. Pronunciandole forniscono l'apparenza del possesso, della proprietà cosale di pseudo-concetti. Si sa che il infatti che il bourgeois non può vivere senza la proprietà, egli è la sua proprietà. Il suo linguaggio è quello dell'individuo di massa, sicuro di sé, presuntuoso e scaltro abbastanza da reclamare il diritto di utilizzare un linguaggio libero di ignorare la tradizione, rimanendone così del tutto succube, poichè nella miopia del suo linguaggio i suoi orizzonti si sono sensibilmente contratti.


Il feticismo della cultura

La verità più profonda della dottrina marxiana della distinzione tra struttura e sovrastruttura è quella di aver segnalato che la seconda è un indebito e violento isolamento di un elemento dalla totalità in cui è inserito, e nella quale assume il suo unico significato reale. Mai come oggi la cultura conserva l'apparenza totalitaria della sua autonomia rispetto al movimento dialettico globale. La falsa compattezza della storia della cultura, malgrado Marx, Benjamin, Debord, si è ancor più consolidata. La cultura crede di librarsi superba al di sopra dei prodotti culturali di massa, mentre è solo un momento della dialettica della povertà culturale. Si è venuta così a formare una falsa opposizione tra prodotti culturali di massa e prodotti culturali d'autore. Non è difficile vedere che i secondi sono efficacissime sentinelle dei primi. Di questa apparenza è completamente intriso Alceverde. Non credo sia molto distante dalla sua convinzione che una lettura su larga scala di Stendhal, che magari potrebbe sostituire gli Harmony o "Visto" dal parrucchiere, avrebbe una buona parte nell'emancipazione dell'umanità. Nulla di più solidale con il mantenimento dello status quo. L'impiegato può leggere, se gli restano ancora un po' di energie tra il suo stupido lavoro, la moglie, le vacanze, e gli acquisti per la casa, l'eredità della "grande tradizione culturale" solo perchè l'operaio resta totalmente estraneo a questa cultura. Questo Alceverde non lo vede. La cultura è divenuta per lui un feticcio tale che chiunque non si piega davanti ad essa, e continua magari a vivere di calcio e riviste di motori, è giudicato non esplicitamente indegno della sua compagnia, ma in ogni caso differente per schiatta e per stoffa, o tutt'al più oggetto per una serata del suo divertimento (e spesso del sottoscritto). Dopodichè quella persona resta qualcuno che non ha niente da spartire con lui. Ma la cultura non è un trastullo per salottieri, così come, consapevole o meno, la intende Alceverde. La cultura è il campo di una lotta. Anche la grande cultura, potè nascere e continuerà a farlo solo sulle spalle del servaggio di milioni di uomini. "Non vi è documento di cultura senza esservi insieme documento di barbarie" (Benjamin, Tesi sul Concetto di Storia, tesi VII). Alla grande cultura appartiene sempre una grande boria, promemoria dell'ingiustizia su cui si edifica. Chi si è abbeverato alle fonti del materialismo scorge ad ogni piè sospinto, in ogni eccellente prodotto culturale, le tracce dell'oppressione. Una società in cui la cultura raggiunge vertici di eccellenza è una società in cui l'ingiustizia regna indisturbata; l'eccellenza culturale testimonia della non conciliazione di alcune sua parti con le altre. Un libro di Marx risulterà sempre più deleterio per il proletariato rispetto ad una trasmissione di Barbara Durso, fin quando peserà sulle sue spalle e gli risulterà incomprensibile. Questa atroce verità non è nota ad Alceverde, per difetto di materialismo. Il museo, luogo archetipo della separazione della cultura dalle masse, tesoro reale in cui viene raccolto tutta la bellezza che ci è stata espropriata, non rappresenta per lui alcun problema. Egli non comprende appieno il saggio di Benjamin sull' opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, poichè in esso scorge le aspettative, per lui insostenibili, del crollo della grande cultura borghese, dalla cui prospettiva egli parla. Egli non è abbastanza dialettico. Non vede che la bellezza eterna promessa nel duomo di Firenze, non è che una crudele e cinica parodia della bellezza della felicità non più promessa, ma attingibile nella società conciliata, e senza artisti.


La cura del corpo

Alceverde non è certo uno di quelli che seguono in perfetta sincronia il ritmo frenetico delle innovazione tecnologiche. Tuttavia il suo corpo è l'incrocio perfetto di tutte le tecnologie messe in opera dalla borghesia per aumentare a dismisura la distanza tra se e gli altri, tra se e la natura. Oltre che dell'incantesimo dell'arte e della cultura che lo mantengono nel torpore, egli è vittima di uno ben più invasivo, le cui formule magiche consistono in tutta una serie di mitologie scientifiche, di miti edonisti e allo stesso tempo di paure igienistiche. L'alce verde proprio non capisce perchè si dovrebbe soffrire il caldo quando la fiaccola vittoriosa della tecnica avanza con i suoi climatizzatori. Già non vede più al di fuori; il suo corpo è totalmente investito (come quello dei più), di una seconda natura che gli appare come la prima ed immutabile. Tratta anche il dolore così come il borghese tratta tutto ciò in cui si imbatte: utilitaristicamente e finalisticamente. A che soffrire il caldo? A che pro rinunciare a qualcosa che ci procura piacere? Quale sarebbe il fine, oggi che la tecnica ci sorregge tra le sue braccia di madre morta, di una sofferenza fisica? Il corpo è invece il serbatoio di tutto il nostro essere. Ciò che il piccolo borghese chiama sofferenza inutile o gratuita sono i colpi dello scalpello che ci forgiano. Non mi riferisco qui all'ideologia della tempra d'acciaio tipicamente fascista. Piuttosto, Alceverde dovrebbe imparare a scorgere nelle tecnologie che ci impediscono di ricordarci del nostro corpo, altrettanti dispositivi di livellamento spirituale. Lo spirito non è influenzato dal corpo; lo spirito è il corpo, senza mediazioni. La sua mania per l'integrità dei cibi, la sua attenzione (pur con modeste capacità) alla distinzione e alla selezione di sapori, la sua ossessiva profilassi, pressochè esclusivamente psicologica, visto che in fin dei conti raramente pratica, fortunatamente, un igienismo estremo, fanno parte della stessa incapacità di porsi di fronte alla questione del corpo con uno sguardo che sia diverso da quello utilitarista. Questo sguardo si estende fin nelle propagini paludose del suo concetto di morte, che la morte di alceverde è sempre una morte di lazzaretto o d'ospedale. Ma questo credo sia il lato contro il quale egli è più impotente. Per chi, come alla fine delle ferie pagate concesse dall'alto, cresce in una serie di attenzioni e di piaceri che cercano in tutti i modi di precluderci un rapporto autentico e laborioso con il proprio corpo, la loro cessazione diventa insostenibile, così come ciò che è stimolante nel suo non assecondare i capricci di bambini viziati viene chiamato ed avvertito come doloroso.


"Che cosa mi è lecito sperare?" (1)


Coloro che parlano di rivoluzione e di lotta di classe senza riferirsi esplicitamente alla vita quotidiana, senza comprendere ciò che vi è di sovversivo nell’amore e di positivo nel rifiuto radicale di tutte le costrizioni, si riempiono la bocca di un cadavere.
Comitato Enragés - Internationale situationniste
Parigi, maggio 1968

Si sarebbe tentati di rispondere a questa domanda con: "nell'amore", nel senso pregnante in cui lo usava Gesù di Nazareth, sulla scia della quale Marx ed ogni filosofo della liberazione hanno concepito la rivoluzione, e di cui i situazionisti hanno raccolto l'appello nel testo "La comune non è morta (chi ha paura della comune?)". Senonchè Alceverde non sembra avere alcuna nozione riguardo questo amore che vendica e scioglie l'oppresso dalle sue sofferenze. Quando parla di amore, si riferisce all'amore tra due, di cui il massimo ideale che riesce a raggiungere è quello di godere dell'altro in un estetizzante intrattenimento culturale, che il piccolo borghese riesce a pensare come scambio di anime e comunicatività. Talvolta Alceverde parla di liberazione, rivoluzione, o di qualunque concetto si voglia affibiare ad istanze emancipatrici. Ma la sua estrema fiducia nella tecnica gli impedisce di attingere ad un'immagine credibile di felicità. Egli ha ereditato il lato peggiore del materialismo storico marxiano: quella ingenua dialettica che scorge nell'incremento tecnico della produzione capitalista e nel conseguente mutamento della relazione tra forze produttive e rapporti di produzione le prime e necessarie tappe che preludono all'emancipazione del proletariato. E' questo in fondo il dogma principale della sinistra attuale, in ciò pienamente compatibile con l'attuale sistema di produzione. Secondo questo dogma l'emancipazione dalla natura e dalla fatica sarebbe già di per se emancipazione tout court. Ma non solo senza una destabilizzazione radicale i mezzi di produzione restano nelle mani della classe che opprime; la velocità e la comodità della produzione e del consumo favorito dalla tecnica, hanno in se stessi un potenziale distruttivo nei confronti della natura e dell'uomo. L'uomo necessita di una prassi trasformatrice attiva. L'automazione espropria l'uomo della sua attività, lo rende semplice funzione del processo globale, e logora alterandoli i ritmi quieti della natura. La socializzazione integrale del lavoro auspicata da Marx attraverso il modello spaziale della grande industria si è rivelata espropriazione integrale dell'attività dell'uomo, che oggi potrebbe sopravvivere potenzialmente anche manipolando solamente il suo telefonino, mentre le sue facoltà legate al movimento della mano che incontra il materiale vanno inesorabilmente atrofizzandosi.
Ma la felicità non è qualcosa di originale, di nuovo, di completamente rivoluzionario, di culturale. Il vento della salvezza già da sempre spira tra gli spazi che le maglie coercitive del tessuto sociale stringe intorno alla gola. Laddove una quindicenne si lascia scappare un raro riso di autoironia tra i poster degli idoli vampiri, dove la casalinga sprofonda il respiro in uno dei brani più grossolani di Renato Zero, nel lampo rapidissimo di felicità che scontorna l'occhio dell'impiegato d'ufficio all'acquisto del suo nuovo televisore, lì vi è in nuce la liberazione. Se si continua ad attenderla in un presunto movimento accrescitivo del tesoro culturale e degli "orizzonti mentali", si collabora senza saperlo con il nemico, che perpetua nelle gerarchie estetico-valoriali e del "gusto" la divisione di classe.

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