venerdì 4 giugno 2010

La trappola per topi

Gli schiavi nelle loro catene perdono ogni cosa, perfino il desiderio di liberarsi di esse.
Rousseau, Il Contratto Sociale

Da un certo modo di concepire il potere scaturisce un modo del tutto illusorio di combatterlo. E così, chi crede di combatterlo non fa altro che rafforzarlo. Mostreremo anzi che quella intuizione del potere è prodotta dalle strategie che derivano dalla struttura del potere reale ed effettivo.
La confusione nasce dall’innegabile carattere esclusivo del potere. Non si può negare infatti che tra le prestazioni principali del potere ci sia l’esclusione. Non si può comprendere fino in fondo l’essenza di questa esclusione se prima non si è compresa l’essenza del sacrificio e la struttura sacrificale. Di questo fondamento antropologico del potere qui non ci occuperemo, ma solamente della sua morfologia, che in ogni caso deriva da quel fondamento.
A partire dalla qualità esclusiva del potere, si inferisce troppo frettolosamente che il potere abbia carattere repressivo. Sia l’esclusione che la repressione portano su di se un segno negativo, e si cade quindi molto facilmente nel pericolo di confonderle. Tratteggeremo schematicamente la morfologia della concezione repressiva del potere.
Il potere repressivo viene dall’alto. Proveniendo da un’altura non può che schiacciare, spingere verso il basso. Si presuppone quindi che ci sia qualcosa, di potenzialmente pericoloso per il potere, che debba essere de-presso. Il potere deve sfrondare, diminuire, schiacciare. Sarebbe troppo semplice confutare questa concezione ex-negativo, mostrandone la fin troppo chiara derivazione psicologista. Prenderemo quindi un’altra via.
Il cuneo cui applicare il grimaldello per rovesciare questa concezione, ci offerto da essa stessa. La concezione repressiva del potere, come abbiamo appena mostrato, presuppone che ci sia qualcosa da reprimere. In verità questo qualcosa non è ciò a cui il potere si applica per soffocarlo, ma l’esito, il fine e l’unico obiettivo del potere stesso. E’ il potere che deve far emergere tutte quelle istanze che solitamente si crede che esso abbia il compito di soffocare. E, conseguentemente, è il potere che si dissimula con il volto del repressore, in modo tale da far emergere quelle istanze in modo più chiaro. Vediamo come e perché.
Il potere funziona come una trappola per topi. Lungi da reprimere la fame del topo, la trappola la stimola con l’odore del formaggio. Il topo è così stimolato ad esprimere la sua fame, a dirigersi verso il formaggio, e ad adottare tutte le misure più efficaci per raggiungerlo. E quando finalmente lo raggiunge, ecco che, zac!, la trappola l’ha catturato. La prestazione fondamentale del potere è la cattura e non la repressione. In un certo senso la trappola è già da sempre attiva, ed il topo già sempre catturato; sin da quando il piacevole odore del formaggio comincia a stimolare i suoi organi olfattivi.
Al potere è quindi indispensabile che chi gli è assoggettato si esprima . Solo se il soggetto si esprime egli può essere catturato. Altrimenti il potere non ha ciò su cui poter far presa. Tutti ciò che si chiama istinto, è l’odore del formaggio che emana dalla trappola. Fuor di metafora, gli istinti sono i percorsi tracciati dal potere perché il soggetto possa, percorrendoli, incorrere nella sua cattura. I desideri, le volizioni, i sogni e i sonni collettivi (ad esempio il dogma più diffuso della religione della nostra epoca: la glorificazione del divertimento), le più segrete brame, sono effetti che il potere esercita sul nostro corpo, mettono in forma le nostre forze in una condotta identificabile, gestibile, governabile, pre-calcolabile. Fondamentale è che il potere ci riconosca, che sappia chi siamo, che noi diciamo “la verità su noi stessi” . Esso deve tagliare delle gabbie su misura, non se ne fa niente di un individuo senza forme, e che in ultima istanza non sia neanche un individuo. Ha bisogno di un’individuazione preliminare.
Ora appare più evidente il modo in cui la concezione del potere come repressivo sia prodotta dal potere effettivo stesso (che non è repressivo). Il potere penetra così a fondo in ogni nostra fibra, che lo stesso sguardo individuante che esso ha su di noi, noi stessi l’abbiamo su noi stessi. Noi ci pensiamo alla maniera in cui ci pensa il potere, per meglio dire, noi siamo pensati dal potere. Abbiamo la più ferma certezza, e ci infastidirebbe chiunque insinuasse su ciò il minimo dubbio, che gli individui dotati di istinti, di volontà autonoma e di desideri siano già dati, quasi per natura. Che cosa sono io, se non ciò a cui aspiro? Se non ciò che scarto e ciò che scelgo? Se non le mie più recondite pulsioni? Se si muove dall’assunto che esistano desideri per natura, e il potere reale sorveglia affinché questa convinzione si perpetui, non si può che avere un immagine repressiva del potere: come ciò che soffoca l’individuo.
Ci troviamo in una situazione che per il senso comune è paradossale. Ciò che ci permette di esprimerci è in realtà oppressivo. Ma se ciò appare paradossale è soltanto perché la nostra immagine del potere è tenacemente repressiva. Una delle obiezioni che potrebbero qui essere sollevate sarebbe: e allora, come sfuggire alla presa del potere? Inibendo la propria volontà? Ma qui si vede facilmente come questa obiezione sia tutta interna al paradigma repressivo del potere, e scorge nell’elusione della cattura una mera inibizione.
Questa obiezione si leva da chi identifica la liberazione con l’espressione dei propri desideri, come se essi non fossero l’esca del potere. Il soggetto libero è una prodotto del potere liberale. E’ ora che ci se ne disfi.
Checché se ne dica, l’ascesi autentica è la vera bestia nera del potere; su di essa la sua presa scivola continuamente. E’ inevitabile quindi che nelle sue prime manifestazioni la resistenza al potere come cattura si presenti come ascesi. Ascesi come dominio delle forze, freddezza nei confronti di se stesso, sprezzo per i piaceri forniti dalla individuazione, che sono sostanzialmente la soddisfazione per la propria condizione professionale, il consumo di prodotti culturali, il prestigio. La lotta non può che avere il senso negativo di abbattimento dei sistemi di individuazione. Si deve avere il coraggio di non essere se stessi. Il “nostro” se stessi, la “nostra” individualità, è in realtà la cosa che meno ci appartiene, e che più ci rende schiavi. Più ci dibattiamo alzando la voce, più ci dimeniamo con atti di ribellismo irriflesso, più rivendichiamo i nostri “diritti” e la nostra volontà, più restiamo impigliati nelle nostre catene. Abbiamo imparato ad amarle, le nostre catene; al punto di credere che saranno loro a renderci liberi.
Come non si può pensare più la rivoluzione come un azione finalizzata ad uno scopo a venire, così non la si può pensare come espressione, manifestazione, rivendicazione. La rivoluzione dovrà piuttosto avere l’aspetto del suicidio , dell’autodistruzione, del dissolvimento di sé, del naufragio. In quale altro modo rendere inoperante la trappola? Si potrebbe pensare di disattivare direttamente la trappola. Ma proprio il carattere fluido e sfuggente del potere impedisce una localizzazione univoca del bersaglio da colpire. Molto più efficace sembrerebbe il rendersi scivolosi, sfuggire alla presa, assorbire l’urto delle vessazioni neutralizzandone l’effetto (e mostrare spavaldamente che il colpo è andato a vuoto), mostrarsi immuni da quella logica e da quella economia di forze . E, non da ultimo, non dimenticare che i topi ci rimettono la pelle.

Gingko

Marxismo e fenomenologia in amore

Che cos’è la proprietà? Un rapporto sociale.
Che cos’è il valore? Un rapporto sociale.
Che cos’è la sorveglianza? Un rapporto sociale.
Che cos’è il potere? Un rapporto sociale.
Che cos’è Dio? Un rapporto sociale.
Che cos’è la cultura? Un rapporto sociale.
Che cos’è l’arte? Un rapporto sociale.
Che cosa sono vittoria e prestigio? Rapporti sociali.
Che cosa sono sesso e amore? Rapporti sociali…

…un momento, un momento, piano, fermi. Sono costretto ad interrompere questa dolcissima litania marxista. Come? Il sesso e l’amore costituito su di esso e perpetuantesi attraverso di esso sarebbero rapporti sociali? Si tocchino Dio e la proprietà ma, per carità, non si tocchi l’Amore. L’amore è una tonalità dell’animo, un sentimento tutto interiore; per esso il principio marxiano secondo cui non esiste alcun interno, ma tutto è esterno e configurazione squisitamente esterna delle forze, deve fare un eccezione, deve farsi da parte con discrezione. Marx se ne stia da parte. Non importuni gli amanti.
E’ un esercizio sadico lo ammetto il nostro, quello di dissipare i fumi della fantasmagoria della merce sessuale-amorosa rivelandone lo scheletro politico che la sostanzia. Tuttavia un esercizio molto faticoso, perché costretto a scontrarsi contro un muro di durezza adamantina, quell’ostacolo apparentemente insormontabile che è il “fatto” dei sentimenti. Il problema dunque diviene: come portare alla luce la struttura sociale dei rapporti amorosi, senza cadere nella tentazione di ridurre l’esperienza vissuta su di se ad effetti sovrastrutturali prodotti causalmente da quella struttura?
Sembra quasi di trovarsi di fronte ad una doppia verità, le due espressioni infinite della stessa sostanza infinita, ma che tra loro non si toccano. Ci si potrebbe riferire ad esse come verità oggettiva (base materiale del rapporto) e verità soggettiva dell’amore, se non che quel che qui si vuole mettere in discussione è da un lato l’esistenza di una verità interna indipendente dalle condizioni storico-materiali, dall’altra lo statuto attribuito normalmente alla “verità dell’interno”. Dalla critica potrà così emergere una diversa forma concettuale sotto cui ricondurre ciò che abbiamo chiamato in vari modi: vissuto interiore, qualità soggettiva del rapporto, aspetto sentimentale del rapporto sociale.
Dobbiamo in primo luogo distinguere il metodo dall’oggetto. L’oggetto è l’amore; la metodologia marxiana consiste nel rovesciare i contenuti mitici di un rapporto sociale alienato in immagini ideali e sparpagliarli su di una mappa bellica, su cui si affrontano differenti strategie e resistenze. Che il metodo sia scientifico non significa che debba esser tale necessariamente anche l’oggetto. E viceversa: se l’amore è un oggetto “irrazionale”, ciò non implica affatto che il metodo più appropriato per coglierne l’essenza sia quello irrazionale, magari quello poetico. Lo svisceramento dell’amore mediante l’esposizione dei suoi contenuti materiali non è una materializzazione dell’amore. L’analisi verrà svolta, al contrario per raffinare le distinzioni tra i due ambiti, la ricollocazione degli elementi all’uno piuttosto che all’altro, ed in ultima istanza per un afferramento più profondo dei rispettivi concetti.
L’amore non è qualcosa che si libri nell’aria a congiungere due soggetti isolati. Non è neanche, quantomeno per l’oggetto della nostra riflessione, un’attrazione di tipo magnetico dei sessi per sfregamento più o meno metaforico. L’amore è nella storia, nei popoli, sotto istituzioni e saperi determinati. Inoltre l’amore, come lo sfruttamento, è sempre amore di qualcuno per qualcun altro. Che io ami un singolo individuo piuttosto che un gruppo di individui, che ami carnalmente o meno e soprattutto che io accetti di chiamare amore l’uno piuttosto che l’altro- queste non sono incarnazioni storiche di differenti idee di Amore. Queste differenze vogliono piuttosto significare che l’amore è di volta in volta l’uno piuttosto che l’altro, perché consegnato all’attimo storico che decide ogni volta cosa l’amore sia. Che l’amore sia un oggetto storico significa anche che è un rapporto sociale. “Ad ogni modo di produzione corrisponde un determinato rapporto di produzione” . Ad ogni modo fenomenico dell’amore corrisponde un determinato rapporto “privato”. Dove l’accento cade su “determinato” ovvero finito, di un tipo e non di un altro, uno tra gli infiniti modi possibili o già realizzati, sincronicamente o diacronicamente. Non è l’esito di una mia libera scelta che io oggi cerchi l’amore o il sesso il sabato sera, piuttosto che frequentando un salotto aristocratico, ma il necessario schema di condotta da assumere per il fatto di appartenere ad un’epoca successiva all’ottocento, ad esempio, e ancora di appartenere ad una determinata classe economica, di avere accesso ad alcuni prodotti culturali piuttosto che ad altri, di vivere in campagna piuttosto che in città. E lo stesso vale a livello microscopico per ogni singolo elemento del fenomeno sesso-amore così come un individuo lo “vuole” vivere, ovvero le alternative monogamia-poligamia, amore carnale-amore romantico, matrimonio familiare-matrimonio sentimentale e così via. Ogni singolo respiro degli amanti è un respiro di ghiaccio, congelato in strutture previste e già da sempre in opera, ancor prima di scoprirsi innamorati. Andare a casa di lei (i genitori sono “moderni” ) o nascondersi nei boschi, sesso di gruppo o sesso duale o sesso telematico, ogni rapporto sociale è canalizzato in dispositivi e progetti che hanno un valore interamente politico.
Non solo l’agire d’amore è un agire che segue pre-visioni e strutture le quali agiscono già da sempre prima di ogni sentimento soggettivo, ma queste strutture penetrano e costituiscono i soggetti, organizzandone le forze e calibrando i bilanciamenti nei rapporti con gli altri. Se in alcuni popoli il rapporto con l’altro sesso è una sfacciata conservazione del dominio dell’uno sull’altro, nell’occidente attuale è una sorta di meccanismo eugenetico automatico, in cui la libertà sessuale funge da filtro che garantisce il discrimine tra coloro che sono conformi all’attuale forma socializzata del sesso e quelli che invece non lo sono, ripartisce interessi e forma stili di vita in antagonismo tra di loro (spesso apparente: il macho e il secchione sono due facce della stessa medaglia), distribuisce nelle ore diurne e notturne i corpi in differenti spazi della città, sviluppa certi settori dell’economia tagliando i prodotti sugli interessi da esso generati, conserva la prospettiva biologizzante dello sguardo sull’altro,decide i discorsi e li ripartisce, mediante norme sociali implicite che consentono di parlare con alcuni piuttosto che con altri, ed agli uni o agli altri vincolare le proprie mire sessuali .
Tuttavia permane un residuo sentimentale. Per quanto intimamente edificati su strutture indipendenti dal soggetto, non è possibile ignorare gli aspetti emotivi dei rapporti sociali. Che cosa può rimanere di essi? Be’ quasi tutto, integralmente: ansie, speranze, delusioni, suicidi, sorrisi, addii, arrivederci, sguardi, e magari anche attimi eterni. La configurazione storica delle emozioni non intende affatto eliminare i sentimenti; ciò che ad essa interessa e di cui essa vive, è la ripartizione topografica di queste emozioni. Sto forse dicendo che c’è un sostrato umano che permane sotto ogni mutamento storico? Assolutamente no. Ogni sostrato umano è un rapporto sociale, è storico, e per questa ragione non è un sostrato. Quelle gioie, attese, quelle speranze e quegli abbattimenti non sono proprietà naturali dell’uomo che la storia si limiterebbe ad organizzare. Essa ne decide l’intima qualità, il carattere peculiare, li crea. Con una certa cautela potremmo anche affermare che quei sentimenti si susseguono con una certa meccanicità, che sono scanditi ed interagiscono con schemi previsti dalla particolare congiuntura storica. Ciò però non è sufficiente ad eliminare quella sensazione d’eccedenza, mai sufficientemente sospettata di idealismo o spiritualismo, che dovrebbe appartenere al lato sentimentale e passionale dell’uomo. Ci troviamo di fronte ad un dilemma: o i nostri vissuti emotivi non sono che meri giochi di sensazioni prodotte dal nostro cervello che come un qualsiasi altro organo, come un muscolo, per così dire si contrae e si rilassa a seconda del gioco di forze in cui è preso, oppure vale la pena approfondire la dimensione intensiva e la verticalità di ciò che chiamiamo l’emotivo. E se questa alternativa non fosse in realtà un’alternativa, ma una stessa ed unica via?
Si può infatti sostare in un sentimento, farne una sezione trasversale, attraversarlo, afferrarlo in modo diverso. Heidegger afferma che l’autentico non è qualcosa che si trovi accanto o al di sopra della vita inautentica, ma è un differente afferramento di essa . L’inautentico è ciò che nasconde e tiene celato l’autentico, che manifestandosi di contraffà, e proprio per questo è tale. E’ grossomodo questo che qui si intende per intensificazione e sprofondamento verticale. Bisogna in primo luogo abbandonare le espressioni “vissuti soggettivi”, “emozioni”, “sentimenti”, “esperienza vissuta”, che rimandano ad una mistificazione del meccanico che accade nei rapporti sociali. Non siamo noi i soggetti di queste emozioni, queste accadono e si servono del nostro corpo per accadere, per scaricarsi. Probabilmente non accadono affatto, ma quello che noi vediamo come un accadere è una semplice pellicola che copre un tempo che scorre sotterraneo ed è serbato dalla contraffazione. Non che lo sprofondare ci renda soggetti di un qualche accadere. Tuttavia esso ci rimette ad un’istanza tanto inaggirabile e perentoria quanto nascosta, visibile solo nel suo essersi ritratta e nel suo abbandonare la storia. E’ la landa della malinconia e della desolazione, perché di fronte agli occhi non abbiamo altro che rapporti sociali, e” noi stessi”, così come solitamente concepiamo “noi stessi”, non siamo altro che rapporti sociale. E’ una malinconia molto bizzarra, d’altra parte, perché non conosciamo affatto ciò che abbiamo perso, essendo noi stessi, la nostra vita e la nostra morte, nient’altro che un rapporto sociale. Chi potesse scorgere dall’esterno questa malinconia crederebbe di vedere la malinconia di un folle, meditabondo e crucciato nel bel mezzo di un convivio lieto e gioioso. Questo folle sa che ha perso qualcosa, ma non ricorda più che cosa. Non ha quindi neanche la consolazione romantica di poter guardare a se stesso come l’amante che a perso l’amata, o come un Nietzsche che ha perso Dio. E’ consegnato allo scorrere piatto e viscoso della storia. Platone conosceva bene la nostra paradossale condizione per cui dobbiamo ricordare un “regno delle idee” che non abbiamo mai potuto contemplare, eppure un’ “indice segreto” ci ingiunge di ricordare. O meglio di e-ricordare, ma forse il concetto migliore ce l’ha fornito Platone stesso con il termine anamnesi, la non-dimenticanza, concetto felicissimo per via del suo alludere alla memoria solo negativamente, e che può rendere manifesto meglio di qualsiasi altro che l’annuncio della salvezza non si trova al di là della storia, tantomeno si compie in essa, ma è nell’ombra nera che essa lascia ritraendosi. Dove la storia si abbandona.

Gingko